21.274
bambini raggiunti in Kenya, Tanzania e Zambia.
516.430
totale dei beneficiari diretti e indiretti.
87,83%
percentuale dei fondi raccolti destinati ai progetti in Africa e in Italia.
1.174.000. Un numero, una quantità fatta di cifre, di zeri. Di persone che hanno combattuto e vite che hanno lottato per la vita. 1.174.000 sono le vittime di uno dei genocidi più rapidi e sistematici della storia dell’umanità. Ci troviamo in Rwanda, un piccolo Stato dell’Africa Centrale, fra l’aprile e il luglio del 1994. Prima di allora gli agricoltori hutu e gli allevatori tutsi vivevano in pace e in armonia tra di loro, i matrimoni misti erano frequenti e non vi erano differenze razziali fra i due gruppi.
Dopo la colonizzazione dello Stato da parte della Germania e del Belgio, gli occidentali sono entrati nelle vite del popolo ruandese, si sono insinuati nei loro villaggi, nelle loro case, classificando ognuno di loro in gruppi, accentuando le differenze delle loro etnie a partire dai tratti somatici, come se i loro visi si fossero delineati improvvisamente. Hanno contribuito all’alimentazione dell’odio fra l’uno e l’altro gruppo, così i tutsi sono diventati d’un tratto semplicemente i ricchi, e gli hutu i poveri del Paese. Fu questo che portò nel 1994 alla ribellione degli hutu, come se la rivolta fosse stata l’unica soluzione ad un problema inesistente, la diversità un male da abbattere con la violenza.
Per 100 giorni i sovvertitori hutu uccisero tutsi e hutu moderati che non volevano prendere parte allo scontro. Per 100 giorni si consumò questo genocidio, questa guerra etnica. Per tutti quei giorni, ogni giorno, uomini, donne e bambini furono torturati e stroncati alla vita. Oltre 1 milione di persone lasciò questo mondo, un mondo che tace di fronte a questo massacro. Nessuno parla, nessuno ricorda, mentre in silenzio i superstiti si leccano le ferite del cuore. Nessuno racconta, due persone sì.
Marco Cortesi e Mara Moschini, con la loro espressività e la loro passione, sul palco di scuole, chiese, piazze e città, raccontano di questo genocidio, iniziato il 6 aprile del 1994 e terminato nel luglio dello stesso anno con il rovesciamento del governo hutu e la presa del potere da parte del Fronte Patriottico Ruandese. Marco e Mara raccontano di una donna tutsi, Cecile, e della sua bambina Sophie, del modo in cui sono riuscite entrambe a nascondersi presso casa di Augustin, un uomo hutu sposato ad una donna tutsi, e di come hanno atteso coraggiosamente la loro liberazione.
Raccontano della brutalità di questa guerra, del senso che neanche loro, raccontandola, riescono a trovare. Del motivo per cui tutte quelle persone hanno dovuto perdere la vita: un odio razziale. Marco e Mara riescono a far presa sull’immaginazione dello spettatore, catturandolo e coinvolgendolo emotivamente. Portano sul palco storie vere, parole autentiche, occhi che hanno vissuto, pianto e visto la disperazione in volto. Raccontano di come una madre non è riuscita ad arrendersi nel tentativo di salvare la propria figlia, di come un uomo ha avuto il coraggio di andare contro tutti, pronto a morire per salvare due vite innocenti. Innocenti, perché di questo si tratta. Vittime, perché di questo si parla.
Cecile non si è arresa, è riuscita a salvare sua figlia, è sopravvissuta. Lei e Augustin hanno contribuito a sfamare decine di fuggitivi nascosti nella soffitta di una casa, per quei 100 giorni di massacri.
“Avevano tutti gli stessi occhi, lo stesso naso, la stessa bocca.”
Mara interpreta Cecile, si immedesima in lei, usa le sue parole, le sue espressioni. Abbraccia il vuoto fingendo di avere Sophie tra le braccia, la stringe forte per proteggerla. Ed è come poterla vedere, quella bambina, stretta alla madre, che non capisce perché non può portare con sé il suo peluches preferito, che non sa, non può sapere, perché ora rischia la vita. Marco è Augustin per un’ora e mezza, è le sue mani, il suo coraggio, la sua perseveranza.
Si muove sul palco come se fosse in Rwanda nel 1994, in quella casa, quando i ribelli hutu scoprirono che in soffitta nascondeva una donna tutsi e la sua bambina. Assistere è come ritrovarsi lì, anche il pubblico in quella casa, in un altro Paese, di fronte a quello che l’uomo spesso, troppo spesso, è disposto a fare.
“Vedrete una gran luce alla fine della storia.”
E la luce è stata la salvezza di Cecile e Augustin, delle loro bambine che oggi continuano a sorridere. La luce è stato il loro coraggio, il loro aiuto verso il popolo ruandese, un popolo distrutto dall’odio, verso il quale si sentivano in dovere di intervenire.
Un popolo in cui hutu e tutsi non esistevano più per Cecile e Augustin, perché c’erano solo persone in quella soffitta, questo erano quegli occhi per loro. Bianco, nero, ricco, povero, il naso sottile, grande, la statura media, bassa. Si è tutti vita di fronte alla vita. Perché ci si guarda con gli stessi occhi, ci si sorride con la stessa bocca.
“Perché siamo tutti esseri umani, ecco perché.”
Alice Baldelli - volontaria in servizio civile
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