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UN VIAGGIO IN DALADALA

Articolo di Martina Furlan dalla Tanzania

Il daladala è il mezzo di trasporto pubblico principale in Tanzania, è un piccolo pulmino con una quindicina di posti a sedere… e una ventina di posti in piedi! Fare un viaggio in daladala è un’esperienza unica, emozionante, strana, assurda, impressionante e inconcepibile.

Insieme all’autista c’è il “conda” ovvero un ragazzo che riscuote i soldi del viaggio e racimola le persone che sono in strada e che si devono spostare.

Lui non ha posto a sedere ma sta mezzo dentro il pulmino e mezzo fuori, busto e testa sono fuori dal finestrino della porta scorrevole dalla quale entrano e scendono molte persone. I più fortunati riusciranno a sedersi su un seggiolino e questo permetterà loro di respirare o muovere il collo liberamente, quanto meno quelli seduti di fianco ai finestrini. I meno fortunati sono quelli che si siedono lato corridoio perché inevitabilmente verranno usati come seggiolini liberi per appoggiare borse, bambini o sacchetti di farina, riso o altro ancora. I passeggeri sfortunati invece sono quelli che rimarranno in piedi, è una vera e propria caccia al posto a sedere! Il daladala non è molto alto e non permette a tutti di rimanere semplicemente in piedi, molti devono piegare la testa, il collo e la schiena per entrarci. La cosa “suggestiva” è che il numero di persone che riescono ad entrare in un daladala è impressionante, quando pensi “ok ora non ce stanno più”, il conda ne fa entrare altre cinque almeno, si tratta pur sempre di business, come dicono loro! Ovviamente tra le persone in piedi ci possono essere anziani, giovani, donne con bambini sulla schiena o legati sul petto.

È un giovedì mattina e sono l’unica msungu sul daladala diretto a Ipamba; sono tra i passeggeri meno fortunati e sono seduta lato corridoio. Ad un certo punto sale una mama con una bambina, che avrà avuto qualche settimana, legata sulla schiena e si mette di fianco a me in piedi. Non ho il tempo di ragionare, vedere la bambina e provare a cederle il mio posto, che lei slega il kitende che tiene la piccola e me la mette in braccio. Anche volendo non riuscirei ad alzarmi per dare il mio posto alla mama perché tutte le persone sono perfettamente incastrate tra loro e anche quando qualcuna deve scendere, per una strana legge della fisica, il gruppo omogeneo di persone non si scompone più di tanto. Mi ritrovo così a fare tutto il viaggio con questa scricciolina in braccio, le vedo solo la testa ma lei dorme beata e non si accorge né del caos né del fatto che sono braccia estranee quelle che la stanno tenendo. Così durante il viaggio rifletto su quanta differenza ci sia rispetto al mio paese di origine, l’Italia. Quale mamma darebbe mai il suo bambino appena nato ad un estraneo, per di più di colore, sulla metro milanese? Probabilmente nessuna. Così come, verosimilmente, quando si parla del concetto di comunità si fa riferimento all’ambiente socio-assistenziale o religioso. In Africa, invece, la comunità è la base della convivenza, si vive in comunità. Ogni quartiere ha un “capo quartiere” che conosce tutte le persone che vivono in quel luogo e al quale tutti fanno riferimento per qualsiasi evenienza o problematicità. Le donne si aiutano tra di loro per far nascere i bambini; i funerali sono organizzati dalla comunità in quanto la famiglia che ha subito il lutto è impegnata a fronteggiare un grande dolore; i matrimoni sono dei momenti di festa non tanto per la coppia quanto per la comunità che si riunisce e festeggia tutta insieme. I bambini spesso non vengono allevati dai genitori ma da un altro parente oppure da un vicino di casa, e quando chi si prende cura di loro deve andare sui campi a lavorare, finita la scuola, i bambini stanno tutti insieme a casa di qualcuno del quartiere e si sa sempre dove sono, tutti sanno praticamente tutto di tutti! C’è una parola in Kiswahili che fa capire bene questo concetto: per indicare i vicini di casa la parola è Jirani ed è inserita all’interno della classe dei familiari, così come la parola Rafiki che significa amico. Quindi gli amici e i vicini di casa vengono considerati familiari sui quali poter fare affidamento in qualsiasi circostanza ed evenienza. Durante la lezione di Kiswahili mi ricordo di aver pensato “mamma mia se dovessi fare affidamento sui miei vicini di casa a quest’ora sarei fritta”!

Quindi su quel daladala diretto a Ipamba per la mama è stato naturalissimo darmi in braccio la sua bambina perché altrimenti lei non ci sarebbe stata e io effettivamente in mano non avevo nulla quindi era uno spazio vuoto che si poteva riempire.. e io durante quel viaggio l’ho riempito di una nuova vita grazie alla sua mamma che, nonostante fossi una msungu, mi ha permesso di far parte della sua comunità!

Martina Furlan Volontaria in servizio civile internazionale in Tanzania

foto di Martina Furlan volontaria in servizio civile Africa

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