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Articolo di Francesco, volontario in servizio civile in Kenya

Ciao a tutti e a te, in particolare, che hai aperto questo articolo. Ti scrivo dall’Italia; tornerò in Kenya per concludere le ultime due settimane di servizio civile ma, nel frattempo, un po’ per liberarmi di lavoro da fare al rientro, un po’ per pensare ad altro, ho deciso di mettermi a scrivere questo articolo.

Devi sapere che, per un discorso culturale molto ampio e profondo, in Kenya ci sono due modi diversi per dire casa. Esiste la parola “Nyumba”, che è la traduzione esatta della parola casa, e la parola “Kwetu”, che significa invece “il nostro posto”, ma che spesso viene utilizzata per parlare della casa. Questo perché nell’ottica della vita di villaggio e del concetto di famiglia allargata il “Kwetu” è rappresentato da diversi posti, come l’appezzamento di terra della tua famiglia, la casa del tuo migliore amico o quella di un qualunque parente.

Detto questo, la domanda che vorrei farti oggi è: cosa serve a te per chiamare un luogo casa?
Il tempo che ci hai trascorso dentro, le persone che abitano quel luogo, i sentimenti che provi, il fatto di avere un letto nel quale dormire, il sentirti sicuro, il possesso di quel luogo…
Il pomeriggio prima di partire per l’Italia, sono andato a fare una visita a casa di una famiglia, beneficiaria dei nostri progetti, che ultimamente visitiamo spesso. Questa casa, è in realtà una baracchetta in lamiera con 3 ambienti; ha il pavimento sconnesso, una sala con i 4 lati occupati da divani e, in un angolo, una credenza, che però è sempre vuota. Pur essendo una casina molto piccola e con poco da offrire, è sempre piena di ospiti, siano esse donne, amici o ragazzi di strada. Quindi, questa casa che apparentemente non ha niente da offrire, diventa “Kwetu” per tante persone e ragazzi. Non solo per Tony e Kamau, che la frequentano abitualmente, ma anche per quel ragazzo che un giorno mi ha detto: “Senti, nel momento in cui io mi sento libero di entrare e uscire da qui perché so che questo è un posto che mi accoglie, questo diventa “Kwetu” anche per me, come lo è per loro”. Kamau e Tony, che erano con noi, hanno sorriso ed annuito, tutti gli altri si sono distesi ed io ho capito che era così, ed era giusto e normale che fosse così.

La seconda domanda che ti faccio allora è: quante delle cose che vengono accumulate all’interno delle “grandissime” case nelle quali viviamo servono per rendere un luogo “nostro”?

Quanti luoghi adesso sentiresti di chiamare “Kwetu”?

Francesco Carroli, volontario in Africa (servizio civile nello slum di Soweto in Kenya)

Francesco con i bambini di strada di Soweto

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